L’impianto visivo e sonoro dello spettacolo amplifica queste tensioni. La Pika — il lampo dell’esplosione — torna ciclicamente come uno squarcio nel buio, accompagnata dal coro formato dalle testimonianze dei sopravvissuti: voci che raccontano il fumo nero che cancellava ogni cosa, la sensazione di diventare essi stessi parte del buio, la città dissolta in cenere. Questi frammenti riescono nell’intento di far emergere il trauma nella sua natura intermittente e sensoriale: bagliori, sensazioni fisiche, immagini che irrompono senza ordine e che lo spettacolo restituisce come incursioni improvvise nella coscienza dei personaggi. In questo modo la scena non rievoca Hiroshima, ma ne fa percepire la presenza residua, la sua capacità di tornare e di alterare lo sguardo di chi l’ha attraversata — o, come Claude, di chi ne porta il peso pur avendola vista solo dall’alto.
In questo quadro, il volo di Eatherly diventa figura del tempo: osservando da lontano l’esplosione, il pilota percepisce le onde di luce come qualcosa che aveva “già immaginato”, provenienti da un futuro che sembrava scritto in anticipo tanto quanto il passato. Il futuro, dice Anders, è già cominciato, e la realtà può essere vista solo da chi è disposto a immaginare il domani.
Sorace e Fazi costruiscono lo spettacolo proprio intorno a questa idea di temporalità espansa. Il viaggio di Claude nella sua psiche diventa un viaggio per tutti: un movimento che attraversa l’America degli anni ’30, la Seconda guerra mondiale, gli anni della Guerra fredda, fino a toccare la nostra epoca. La ricostruzione di Hiroshima, che Anders definisce “distruzione della distruzione”, diventa metafora di ogni tentativo di cancellare ciò che ci abita ancora. È questa tensione fra rimozione e memoria, fra ingranaggio e scelta, a costituire il vero spazio drammatico.
Come ribadito dagli stessi autori e interpreti nel Talk condotto dallo Young Board di Dominio pubblico al Teatro India, Atomica è quindi un esercizio di immaginazione e azione responsabile: una forma teatrale che interroga il presente attraverso il passato e costringe a pensare in termini di effetti, non solo di gesti. Un teatro che, come desidera Muta Imago, non si limita a rappresentare, ma apre possibilità percettive, scava nel tempo, accende lampi nella memoria. Un teatro che ci mette di fronte a ciò che potremmo non voler vedere, ma che dobbiamo continuare a immaginare.
Emanuele Sicignano