Fra.Go.Le. 
O di come è scabroso mordere la vita

La morte a Venezia, libera interpretazione di un dialogo tra sguardi è l’ultimo lavoro di Ferracchiati, in scena al Teatro India di Roma dal 5 al 9 febbraio: debuttato al Festival di Spoleto 2024, testimonia la lunga collaborazione del regista con Alice Raffaelli, danzatrice e performer già protagonista della Trilogia sull’Identità

 

La loro affinità artistica appare evidente già dal talk con lo Young Board di Dominio Pubblico, durante il quale i due performer espongono il complesso lavoro di stratificazione artistica svolto: partendo dal racconto breve di Thomas Mann hanno poi individuato gli elementi drammaturgici che potessero innescare e nutrire il lavoro sull’azione scenica. Ferracchiati, nei panni di  Gustav von Aschenbach, vive in scena sotto forma di parola performativa a cui fa da specchio la coreografia di Raffaelli, giovane Tadzio danzante cui ogni gesto è espressione di una partitura fisica mutevole e sensuale, rappresentazione di un corpo erotico in movimento continuo.

 

A unire i due performer il gusto per una semplicità e un minimalismo che sono anche scelta politica, un’ecologia del pensiero e della scena che rifiuta tutto ciò che è superfluo e che finisce col ricercare una chiarezza quasi cinematografica. 

 

Altra protagonista dello spettacolo è la videocamera montata su un treppiedi nero che percorrendo lo spazio rende possibile una continua moltiplicazione di sguardi e di piani scenici: i corpi e le immagini si sovrappongono, scavalcandosi, allontanandosi, ricongiungendosi nuovamente. 

“Nulla esiste di più singolare, di più scabroso che il rapporto fra persone che si conoscono solo attraverso lo sguardo”. Le parole di Mann centrano il nucleo di indagine di Ferracchiati: portare in scena con forza e dolcezza quello spazio fisico che si crea tra due persone che si guardano, uno spazio che è per definizione pieno di possibilità inespresse. È uno spazio potenziale, un incontro di energie ancora non definite, un luogo d’ombra, un margine di rischio. La videocamera diventa lo strumento ideale per creare infinite angolazioni di uno stesso sguardo e quindi, di conseguenza, infinite relazioni: l’atto dello zoom, del mettere a fuoco, dell’attraversare lo sfocamento per riscoprire i contorni e i lineamenti, è un modo per entrare nell’intimità di chi si osserva. L’atto del guardare diventa una vera e propria azione fisica, assume una corporeità nuova, si concretizza nel tempo e nello spazio: lo sguardo è espressione massima di un’intenzione, di un bisogno, forse di una necessità. Forse ancora, di un desiderio. Perché guardare non è mai un’azione neutra, del non verbale è propria una potenza e una direzionalità fortissime: come cambiamo quando sappiamo di essere guardati?

Questo spettacolo pertanto è anche una resa, un’ammissione di sconfitta davanti ai limiti della parola: la parola fallisce, ammette la propria incapacità di trattenere la bellezza, perché indicibile è talvolta il mondo. Si è davanti a una crisi, a un ribaltamento radicale da parte di un regista e drammaturgo che ha spesso fatto  dell’ironia e dell’austera comicità un’ancora di salvezza. L’estrema intelligenza e sagacia ora fanno spazio ad altro, si cede al silenzio e alla contemplazione, che diventa l’unica forma possibile di appagamento del desiderio. 

 

Contemplare, cioè attrarre l’altro nel proprio orizzonte: avvicinarsi sì, ma non troppo. Perché, come ricorda l’artista, avvicinarsi è pericoloso. 

E allora, come guardare la bellezza?

 

Con sgomento e meraviglia.

Solo con sgomento e meraviglia.

 

 

Anna Cipriani