A raccontarci la sua storia è Manzan, sì, ma non lo fa dal vivo: è la sua voce, che parla al pubblico attraverso un paio di cuffie collegate a un registratore e poste su ogni poltroncina della platea, a condurre quasi tutto lo spettacolo. Grazie a questo specifico utilizzo delle cuffie è facile intendere fin da subito che la performance che Leonardo Manzan vuole proporre agli spettatori è di stampo autoreferenziale: già prima dell’inizio dello spettacolo, infatti, è possibile indossare l’apparecchio elettronico che ripete in loop nome e cognome dell’artista.
Addentrandosi nel vivo dello spettacolo, il teatro India si trasforma in una vera e propria sala di un museo d’arte contemporanea, dove il capolavoro è proprio Leonardo Manzan: egli stesso è pronto ad affermarlo trionfalmente una volta fatto il suo ingresso sul palco ed essersi posto a nudo sopra il suo piedistallo. Nel momento in cui il corpo dell’artista si trova sotto le luci dei riflettori, Manzan espone sé stesso come un’opera d’arte e lo spettacolo viene condotto attraverso un perpetuo susseguirsi di curiosità e assurdità, balli e karaoke, paradossi e provocazioni – anche narcisistiche – richiamando il pubblico a ragionare sull’effettivo volto con cui appare oggi il concetto di arte contemporanea e sulla figura dell’artista, il quale – secondo il regista – dovrebbe rivendicare quell’arroganza che è andata perdendosi sempre di più nel tempo, fino a trasformarsi in “finta umiltà”. L’artista, infatti, non è “un perdente di talento”, bensì un qualcuno di speciale, che ha saputo tirare fuori la luce che risiedeva nel suo interno: insomma, afferma Leonardo, c’è un motivo se lui sta sul piedistallo e voi no.