Storia di un oblio
“Si può morire per sete?”
Un uomo entra in un supermercato e ruba una lattina di birra. Viene subito fermato dalla sicurezza che, dopo averlo condotto di forza in un magazzino, lo uccide… di botte. A parlarne è un uomo, interpretato da Vincenzo Pirrotta, che inizia a raccontare la vicenda minuziosamente mentre si trova seduto accanto alla salma, unico elemento in scena. Il pubblico si immerge in un’atmosfera cupa sin da subito, l’attore è già presente sul palco al momento dell’ingresso degli spettatori che gli si siedono attorno. Il regista dello spettacolo, Roberto Andò, ha voluto utilizzare tutto lo spazio scenico frammentando il monologo per isolare dei momenti di particolare intensità. Storia di un oblio è un monologo di denuncia, un racconto in equilibrio tra un lucido procedere per eventi e un accorato appello di un uomo. L’intento politico non è mai esplicito ma è chiaro che le vicende accadute in Italia abbiano alimentato l’immaginario che ha portato alla costruzione dello spettacolo, oltre al racconto di Laurent Mauvignier Quel che io chiamo oblio da cui è tratta la pièce. L’attore rompe la quarta parete e si rivolge in maniera diretta al pubblico, guardandolo negli occhi, cercando partecipazione attraverso il contatto visivo e fisico. La scelta registica di posizionare parte del pubblico in scena è funzionale all’intento chiaro del personaggio, ossia quello di esortare a non rimanere indifferenti, a non lasciare nell’oblio la sua storia. Per quanto ci si sforzi di non conferire allo spettacolo una connotazione politica, Roberto Andò ci pone davanti a un caso italiano emblematico, ovvero quello di Stefano Cucchi, e lo fa in maniera violenta, spiazzante. L’attore Vincenzo Pirrotta mostra al pubblico la foto di Stefano ucciso e martoriato, da quel momento in poi lo spettatore non può più scappare dalla realtà oltre allo spettacolo.