Ph. Filippo Manzini

L’interpretazione dei sogni 

Un occhio. Un enorme occhio. Non si sa per quanto starà lì a guardarci. Massini è ritto e composto davanti a noi, indossa degli abiti che sembrano quasi voler richiamare quelli indossati dall’uomo in cui si sta per incarnare. Che voce! Non viene dalla bocca ma dagli occhi. Ci fissano e non ci lasciano andare via, non importa dove ci troviamo, che siano le balconate o la platea: Massini sta parlando con noi; Massini sta raccontando una storia proprio a noi. Gli basta ben distribuire questi sguardi nel corso dell’ora e quaranta di spettacolo per poter mantenere l’attenzione sempre alta. Ogni teatrante, o ogni artista, sa che l’essere umano è dedito alla noia; c’è chi dice sia ignoranza, altri invece danno la colpa all’opera, e c’è infine chi sta zitto, non per una mancanza di argomenti, ma perché già dorme. Uno spettacolo intero su Freud, sul “dottor Freddo” come lo chiamava ingenuamente una sua cameriera di origini italiane, non è scontato che riesca a mantenere sempre l’attenzione alta. Un solo attore in scena, una scenografia scarna di particolari e solo tre musicisti come accompagnamento potrebbero all’apparenza non bastare per reggere uno spettacolo di lunga durata. Ecco allora che arriva l’occhio, quello di Massini, che ci osserva e ci parla, e poi quello scenografico, disegnato alle spalle dell’autore, che ci scruta senza mai abbandonarci. Dove siamo noi di solito durante uno spettacolo? Seduti sulle poltrone, questo è certo. Ma quando cala il buio ed è solo il palco ad essere illuminato dov’è che siamo? Siamo lì con gli attori? Siamo fuori già a parlare dell’opera? Potremmo insomma essere ovunque in quel buio, ma quegli occhi non ce lo permettono… ci dicono chiaramente, voi siete qui con me… con noi. Sono forse gli occhi dell’analista che scrutano dentro la nostra psiche? Può essere, come può essere che siano gli occhi di uno dei pazienti del dottor Freddo. Non è di sicuro strano che ci facciano provare angoscia, quella stessa angoscia che Freud dovette sopportare nell’interpretazione del primo sogno: il suo. Ogni atto creativo, qualunque esso sia, comporta una sua sofferenza e, in quanto tale, anche l’interpretazione dei sogni conduce verso questo tipo di sofferenza, con la promessa però, o con la speranza, di un futuro successo. 

Che dunque si soffra guardando Massini mentre ripercorrere gli studi di una delle più grandi menti del secolo scorso. Che dunque ci si lasci andare all’angoscia davanti a questi occhi scrutatori. Ci concediamo a tutto questo purché alla fine ne sia valsa la pena. Per un attimo possiamo pure concederci ad una breve distrazione per chiederci cosa stiano provando i musicisti di Massini; possiamo chiederci cosa stiano pensano Saverio Zacchei (trombone e tastiere), Damiano Terzoni (chitarre) e Rachele Innocenti (violino) lì nel loro angolo mentre suonano. Poco importa in realtà. Non abbiamo molto tempo per darci una risposta, perché la loro musica ci trasporta in un nuovo capitolo, e poi ancora in un altro e così continuano a non lasciarci, continuano ad accompagnare quei due occhi nella loro narrazione.

Ph. Filippo Manzini

Che sia l’intero Teatro Argentina o il retropalco dello stesso teatro, Massini non perde questa sua incredibile capacità ammaliante. Eccoci a sentirlo, vestito da Stefano Massini e non da Sigmund Freud, mentre ci spiega la genesi dell’opera, il suo lungo processo di creazione, per poi perdersi in altri racconti: tra i progetti passati e futuri, tra le teorie freudiane e non. In tutto questo vagare il suo discorso non perde mai concretezza, ma rimane sempre ancorato alle nostre orecchie. Non siamo il suo pubblico, lo siamo stati al massimo; siamo dei ragazzi, dei ragazzi che amano il teatro come lui; siamo quelli che gli stanno facendo ritardare la sua preparazione a mezz’ora dall’inizio dello spettacolo. Eppure lui è lì a donarci tempo e conoscenze, è lì con quel suo modo di essere e di esprimersi ammaliante e carismatico ma che sa essere anche tanto familiare. 

Si usciva dal teatro con il desiderio di conoscere meglio il personaggio Freud e le sue teorie, magari qualcuno anche con il segreto desiderio di voler fare qualche seduta di analisi. Noi di Dominio Pubblico usciamo però una seconda volta dall’esperienza che è l’Interpretazione dei sogni con il desiderio di voler conoscere meglio anche l’uomo di teatro che è Massini. Ignorando lodi o critiche provenienti dall’esterno, usciamo con una semplice curiosità, che potrebbe tramutarsi in stima per questo autore oppure nel contrario. Qualcuno potrebbe pure iniziare ad incontrare Massini nei propri sogni, accompagnato magari dal suo fedele occhio, oppure da solo. Chissà cosa potrebbe dire in una dimensione onirica: sarà ancora attore? Sarà uomo? O sarà una qualche figura paterna a noi ostile? Niente è più certo dopo questo spettacolo. 

Vogliamo però lasciare il gentile lettore con una storiella. Una storiella che potrebbe avere poco senso qui, ma che nel momento in cui fu pronunciata, la sera del diciannove dicembre duemila ventitré, causò i più tristi singhiozzii e ben racconta dunque la forza dello spettacolo. 

Racconta di un uomo ben cresciuto, che aceva il chirurgo ed era abbastanza noto tra i suoi concittadini per la magistrale bravura con la quale sapeva occuparsi degli interni di uomini e donne. Decise quindi, durante una festa di carnevale, di sfidare chi affermava di poter fare altrettanto ma senza toccare neanche un bisturi. Sfidò l’uomo ad interpretare un suo sogno. Così lo raccontò e poi attese la risposta, che non mancò ad arrivare. Tanto forte fu quest’ultima che finì per colpire quell’uomo. Si scordò i suoi cinquant’anni di età, e ritornò a quel bambino che era stato e che ancora tanto amava. E così con gli occhi lucidi di chi ricorda, si avvicinò al dottor Freud per chiedergli con un filo di voce: “Per favore, posso uscire a giocare?”

Incontro dello Young Board di Dominio Pubblico e del Teatro di Roma con Stefano Massini e Sergio Lo Gatto

02/01/2024 di Antonio Nicita