Il cavaliere inesistente
La ricerca di un qualcosa che dia un significato al nostro essere è ciò che smuove il desiderio di cimentarsi in nuove avventure, lo sprone che induce ognuno di noi a metterci costantemente in gioco segnalando la nostra presenza in un mondo nel quale, per quanto paradossale possa sembrare, possiamo sentirci invisibili, in qualche modo inesistenti. Nell’adattamento teatrale della celebre opera di Italo Calvino Il cavaliere inesistente (andato in scena il 13 dicembre al Teatro India di Roma), terzo libro della trilogia de I nostri antenati, Tommaso Capodanno e Matilde D’Accardi conducono un lavoro incentrato sulla ricostruzione di quella ricerca di senso che sottende alle vicende di tutti personaggi, i quali, tra guerre e peripezie, non rimane loro altro se non l’adempimento di un’unica e fondamentale missione: il diritto di affermarsi come artefici della propria storia, di una narrazione esperienziale che presuppone prima di ogni cosa la conoscenza di sé, l’imparare ad essere.
La trama è costellata di riferimenti suggestivi all’autoaffermazione come motore di una perpetua nonché disperata impresa nel raggiungimento effettivo di qualcosa che ci appare incolmabile, qualcosa che ci rende prigionieri di un continuo tergiversare in questa epopea esistenziale piena di sfide e ostacoli insormontabili, come del resto per gli eroi dell’opera di Calvino e delle grandi avventure cavalleresche tramandate nel tempo. Lo spettacolo dona nuova linfa a questo gioco incessante di vicende rocambolesche grazie alle azioni dei protagonisti, finalizzate a dare corpo e sostanza alla propria identità, ad un esserci per noi e per gli altri. Tutto questo viene non a caso traslato in Agilulfo, il nostro cavaliere inesistente (interpretato da Evelina Rosselli), personaggio solido e al contempo controverso, su cui ruota attorno il dissidio tra il volere apparire e il sentirsi che decostruisce l’idea di unicità che sorregge la personificazione di un io. Il cavaliere racchiude dentro di sé questo conflitto. All’interno dell’armatura c’è un nulla nel quale riecheggia la volontà di essere riconosciuto come individuo dotato di valore ed integrità morale, al pari di un uomo al servizio di nobili ideali. Tale volontà è tuttavia destinata a smarrirsi nel vuoto di quella stessa armatura di cui Agilulfo è rivestito e dalla quale sa perfettamente di aver forgiato la propria immagine. L’utilizzo del puppet nella trasposizione teatrale esprime appieno l’impossibilità di affrancarci da certe rappresentazioni di sé: la marionetta diviene il veicolo di una serie di azioni eseguite meccanicamente da parte di un personaggio schiavo di automatismi e regole, apparentemente sprovvisto di una propria volontà.