L’albergo dei poveri
“Povertà” è un termine usato da tutti. Si tratta di una nozione universalmente conosciuta e (quasi) quotidianamente utilizzata nel discorso corrente, ma che, a ben pensarci, può suonare estremamente astratta a chi non l’abbia mai sperimentata. Confrontarsi con la povertà è scomodo. Spesso la si guarda dall’alto in basso, si confonde con quella “massa di poveri”, si ingloba nel concetto di “miseria”; più spesso ancora viene taciuta o ignorata, anche quando si trova proprio sotto ai nostri occhi. Ne L’albergo dei poveri, invece, la povertà ci affronta sul palco, con ben sedici attori a condividere la scena. In questa nuova produzione della Fondazione Teatro di Roma Massimo Popolizio, regista e attore dello spettacolo, ha scelto di mettere in scena un’opera scritta da Maksim Gor’kij nel 1902 e nata con il titolo Bassifondi, ribattezzata L’Albergo poveri nella celebre messa in scena di Giorgio Strehler del 1947, che apriva il Piccolo Teatro di Milano in via Rovello. Il regista, genovese di nascita e romano di adozione, ha presentato la sua versione sul palcoscenico dell’Argentina dal 9 febbraio al 3 marzo 2024 avvalendosi di una riduzione dello scrittore Emanuele Trevi. Popolizio sceglie di togliere dal termine “povertà” il suo principio economico, per far vedere che più che altro la “sconfitta” e la “mancanza” di qualcosa.
L‘Albergo dei poveri è un rifugio che, a prima vista, non ha nulla di particolare. Sul palco un letto matrimoniale, dei tavoli, un altro letto (a castello questo) cosparso di cianfrusaglie; una macchina da cucire e delle porte che conducono ad altre stanze nascoste. Sul fondale si intravede una scala che porta verso l’alto, senza che sia possibile immaginare dove conduca. Sarà percorsa in salita, sì, ma soprattutto in discesa; come se ci indicasse che l’albergo intrappola più di quanto accolga.